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Caso Sea Watch: analisi teoriche di diritto internazionale umanitario in spregio ai principi di autonomia e specialità del diritto della navigazione



Come si legge, per stessa ammissione degli stessi illustri Autori del blog che riportiamo per esteso,
(http://www.sidiblog.org/2019/07/14/navigare-fra-istanze-stato-centriche-e-cosmopolitiche-il-caso-sea-watch-in-una-prospettiva-conflittuale/)
trattasi di mere disquisizioni teoriche che, nell’ottica di una riconduzione naturale della fattispecie alla branca scientifica del diritto della navigazione lasciano troppo spazio a strumentali interpretazioni di un fenomeno che non può essere banalizzato e, a nostro avviso, collocato superficialmente nell’alveo
dei diritti umani e della normativa a protezione dei rifugiati. Il caso Sea Watch così come altri già balzati alle cronache negli ultimi anni, hanno ridotto il dibattito giuridico a mero conflitto tra visioni, che nel blog di cui sopra sono state definite “Statocentriche” e “Cosmopolitiche”.
Vogliamo in questa sede bypassare analisi di contenuto etico-politico, a nostro avviso manchevoli, dell’approccio specialistico al diritto marittimo e, analizzare il modus operandi delle navi armate ed equipaggiate dalle ONG. Utilizzando tale tipo di approccio i dubbi su un corretto inquadramento delle fattispecie in esame permangono.
Tali unità navali, a volte registrate solo come Pleasure Yachts (!), solcando le acque del Mediterraneo, dichiarano di esercitare, in linea con gli scopi sociali delle ONG all’uopo costituite, attività c. d. di Search and Rescue (ricerca e salvataggio). Aderendo a tale assunto ma gettando, sul fenomeno, uno sguardo non politically oriented non si può non evidenziare che le persone raccolte in mare, a bordo di gommoni o fatiscenti barconi, non siano inquadrabili giuridicamente come “naufraghi” nel senso tecnico-nautico che la disciplina marittimistica impone alla luce del diritto internazionale uniforme in materia di soccorso in mare. Nel caso delle attività delle ONG che perlustrano le acque del Mediterraneo per dare attuazione alle finalità sociali per le quali ricevono ingenti donazioni non è ravvisabile quel carattere “emergenziale” che contraddistingue l’evento “naufragio” (che è stato denominato distress).
In diritto romano si faceva derivare tale termine da navis fractio ed esso è contraddistinto ancora oggi dalla perdita totale della nave per cause accidentali cui può far seguito, anche se non necessariamente, la sua completa sommersione. Pertanto, stante la già pretesa e forzata attribuzione dello status di naufraghi ai soggetti de quibus risulta arduo comprendere come possano essere addirittura inquadrati, una volta a bordo della nave, quali “profughi” o “rifugiati” ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, senza prove rigorose che accertino tale condizione.
In ordine ad una presunta visione “Statocentrica” che, in materia di soccorso in mare, confliggerebbe con il diritto umanitario occorre sottolineare che, secondo la Convenzione sul diritto internazionale del mare di Montego Bay del 1982 (UNCLOS) , le navi che solcano i mari battono una Bandiera e questa ne rende riconoscibile lo Stato di riferimento ove, per esigenze e garanzie di pubblicità verso terzi, è iscritta in appositi registri. Essendo la nave, giuridicamente, una “comunità viaggiante” e una “proiezione mobile” dello Stato di riferimento, in base al diritto internazionale, fuori dalle acque territoriali di un altro Stato, è considerata “territorio” dello Stato della Bandiera con le ovvie conseguenze in ordine all’applicazione delle leggi di quello Stato. Questo farebbe scaturire, volendo applicare rigorosamente il più volte modificato Regolamento UE di Dublino solo se fosse accertato che le persone a bordo fossero soggetti alla protezione internazionale o c. d. diritto d’asilo e che, di conseguenza, debba farsi carico lo Stato della nave sulla quale vengono fatti salire a bordo. Se invece non fosse accertato tale status si applicherebbero, in linea generale, i principi della Convenzione sulla ricerca e salvataggio di Amburgo del 1979 (SAR) che, nata per dare attuazione più pregnante alla salvaguardia dla vita umana in mare in occasione di sinistri marittimi, risulta, a tutt’oggi, lacunosa e interpretata non uniformemente dagli Stati firmatari. Come se non bastasse si è purtroppo assistito spesso a situazioni di distress in cui solo l’Italia, attraverso il proprio naviglio militare, ha dato prova di applicare la Convenzione SAR per effetto del diniego di altri Stati o per opinabili (o eterodirette?) scelte dei comandanti delle navi ONG.
Vanno sottolineate, ancora una volta, nello scritto in questione, le inesattezze e supposizioni sulla presunta qualifica di “porto non sicuro” della Tunisia che (a differenza del caso Libia) non emerge da nessuna fonte internazionale rigorosa e di carattere vincolante come lo è invece il diritto degli Stati costieri di regolamentare le proprie acque territoriali al passaggio delle navi che discende dalla Convenzione di Ginevra sul regime internazionale dei porti del 1923. Inutile ribadire che anche il passaggio consentito ai sensi dell’articolo 18 Convenzione di Montego Bay in caso di soccorso non solo ha carattere di eccezionalità ma deve essere rispettoso del principio di inoffensivita’ di cui al successivo articolo 19. Quanto alla visione “Cosmopolitica” essa può legittimare solo l’operato delle navi ONG nel rispetto dei principi della libertà di solcare i mari e dell’obbligatorieta’, per ogni tipologia di nave, sia essa militare o civile, di provvedere al soccorso in mare, in assenza di interventi statali.
Se, però, il diritto della navigazione, come si evince dall’articolo 1 del nostro codice della navigazione e da consolidata dottrina, gode di “autonomia” e “specialità” e se il quadro normativo internazionale sul soccorso in mare (SOLAS 1974, SAR 1979 , UNCLOS 1982 e Salvage 1989) non opera distinzioni tra le persone naufragate in occasione di un sinistro e quelle “raccolte” da barconi vaganti nel Mediterraneo, non è difficile affermare che è errato dal punto di vista scientifico, da parte di una certa dottrina internazionalistica, ricondurre ad un unicum le diverse discipline del soccorso, dello sbarco e dell’asilo (che vanno nettamente distinte e valutate caso per caso). Pertanto, non è giuridicamente ammissibile l’applicazione di un preteso diritto internazionale umanitario senza scomporne istituti e normativa applicabile alle singole fattispecie, che di volta in volta si manifestano, stravolgendo la già richiamata autonomia e specialità del diritto della navigazione.

Navi ONG e Sicurezza della navigazione: Spagna e caso “Open Arms”

Mentre una recente decisione del TAR ha appena sollevato dubbi sul decreto sicurezza bis varato dal governo italiano in merito alla legittimità o meno di impedire lo sbarco delle persone a bordo della nave “Open Arms”, gestita dalla ONG spagnola Proactiva Open Arms, disponendo immediatamente la sospensione del divieto, precedentemente veniva notificato, il 27 giugno scorso, al comandante della nave “Open Arms”, impegnata nel salvataggio di migranti nel Mediterraneo centrale, dal Direttore generale della Marina Mercantile del Regno di Spagna un dispaccio con il quale si avvisava il medesimo elencando le possibili conseguenze in caso di violazione delle direttive ivi contenute. Senza ricorrere ad una normativa “ad hoc” come il c.d. “decreto sicurezza bis” (che oltre ad attribuire, a nostro avviso erroneamente, ai Ministeri degli Interni e della Difesa pregorative esercitabili solo dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con l’avvalimento del Corpo delle Capitanerie di Porto come sanciti dall’articolo 83 Codice della navigazione ci sembra inadatto, ratione materiae, a disciplinare il divieto di ingresso nelle acque territoriali di navi quando ricorrono le condizioni di cui all’articolo 19 comma 2 lett.g Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del Mare) la Spagna investita del caso “Open Arms” ha semplificemente applicato il combinato disposto di cui agli articoli 5.1 e 100 della legge 24 luglio 2014 n. 14 sulla Navigazione Marittima in materia di norme di polizia marittima e gli articoli 308 comma 2.8 e 312 comma 3.2 della Legge sui porti dello Stato e della Marina Mercantile approvata con Real Decreto Legislativo 5 settembre 2011, in cui sono già determinate, in caso di infrazioni contro la sicurezza della navigazione secondo un elenco tassativo stabilito in un Capo appositamente dedicato, oltre al sequestro della nave e ai provvedimenti disciplinari nei confronti del comandante della nave e dell’equipaggio, le sanzioni pecuniarie accessorie. La legislazione italiana si conferma farraginosa e lontana dal disciplinare “tecnicamente” le fattispecie che attagliano al diritto marittimo puro

Un “pasticciato” Decreto sicurezza bis e il soccorso in mare non sono antitetici

Allarmi su una presunta violazione dei diritti umani e “criminalizzazione” dei salvataggi in mare. Sono queste le impressioni che ha suscitato il varo del D. L. n. 53 del 2019 c. d. “decreto sicurezza bis”.
Tralasciando gli aspetti sanzionatori voglio soffermarmi sulla norma piùcontroversa del decreto ossia l’articolo 1, secondo cui il ministro dell’Interno “può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica” , quando si realizzano le condizioni dell’articolo 19, comma 2, lettera g) della Convenzione ONU sui diritti del mare firmata a Montego Bay nel 1982. Il paragrafo della convenzione menziona il “carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato” tra i casi tassativamente previsti che danno luogo al c. d. “passaggio offensivo” che viola le condizioni previste dal precedente articolo 18.
In pratica, il decreto sicurezza bis consente al ministro dell’Interno di vietare l’ingresso – nonché la sosta o il transito – nel mare territoriale italiano di navi che violano le leggi italiane in materia di immigrazione. Il dicastero, in spregio all’articolo 83 codice della navigazione, che, in caso di divieto di ingresso nei porti, attribuisce competenze in tal senso al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, si è impropriamente avvalso, in precedenza, di tali poteri per annunciare, senza alcun provvedimento formale, i divieti di ingresso nei confronti delle navi delle ONG che hanno soccorso le persone a bordo dei natanti che, partiti presumibilmente dalla Libia, solcavano (e solcano ancora oggi) il Mediterraneo.
Se è vero che il soccorso in mare in caso di pericolo ed il diritto di asilo sono regolati da convenzioni internazionali che non possono essere superate con una legge nazionale è altrettanto vero che il richiamo all’articolo 19 della Convenzione di Montego Bay è legittimo in quanto espressione della sovranità dello Stato costiero sulle proprie acque territoriali.
Resta infelice l’adozione, da parte del Legislatore, di uno strumento normativo come il c. d. decreto sicurezza bis per disciplinare una materia che avrebbe dovuto essere inclusa nel menzionato articolo 83 (la cui prima formulazione è espressione di un codice della navigazione emanato nel 1942 in vigenza della Convenzione di Ginevra del 1923 sul regime internazionale dei porti) all’indomani della ratifica di Montego Bay (1994)senza stravolgere le competenze in ordine all’interdizione navale nelle acque territoriali che competono solo all’Autorita’ Marittima e pertanto sotto l’egida del dicastero delle infrastrutture e dei trasporti. In merito alle critiche inerenti la dubbia applicazione della disposizione in caso di mancata individuazione in termini univoci del “porto sicuro” (in realtà la traduzione del testo ufficiale “place of safety” è “luogo sicuro”) occorre ricordare che ai sensi della Convenzione di Amburgo del 1979 il porto ove si completano, in sicurezza per le persone soccorse, in caso di mancato accordo tra gli Stati che hanno notificato all’IMO la propria zona SAR, è perfettamente valido il criterio della prossimità geografica a dove è avvenuto il salvataggio qualora si evincano violazioni dei diritti umani.
È opinione diffusa, ma errata concettualmente e giuridicamente, che per tutte le navi che soccorrono nel Mediterraneo centrale, cioè nei pressi della Libia, il primo “luogo sicuro” sia sicuramente l’Italia secondo una presunzione, non avvalorata da alcun espresso dettato internazionale, che nessuno degli altri paesi dell’area sia sufficientemente attrezzato per permettere uno sbarco che non metta a rischio le persone soccorse. Pertanto, in teoria, anche la Tunisia o Malta avrebbero questi obblighi senza alcuna possibilità di derogarvi.
Il “decreto sicurezza bis”, sul punto, nonostante non sia certamente lo strumento normativo adatto per disciplinare il divieto di ingresso nelle acque territoriali di navi straniere “ostili” (e l’ostilità deve essere verificata in base le disposizioni del diritto internazionale marittimo sia di pace che di guerra) si concentra sulla condizione di irregolarità delle persone soccorse che entrano nelle acque italiane a bordo delle navi delle ONG ed allora non può essere in contrasto, sul piano dell’astrattezza e del diritto sostanziale, con Montego Bay in virtù della richiamata lettera g) dell’articolo 19.
Trovare, come si è spesso argomentato, motivi di contrasto con il principio di non respingimento dei richiedenti asilo disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, all’articolo 33 e dal Protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, articolo 4 (“Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”) è come “certificare” che ogni nave ONG sia “automaticamente” piena di richiedenti asilo quando esiste nel diritto marittimo internazionale la possibilità, non sfruttata, di utilizzare le navi militari per i compiti di accertamento non solo delle condizioni di salute ma anche dello status delle persone soccorse con la conseguenza, se vi ricorrono i presupposti, di applicare le misure previste dal Regolamento 604/2013 (Dublino III) o avvalersi, in caso di provato “distress” delle persone a bordo, del passaggio rapido ai sensi dell’articolo 18 per esigenze di soccorso a patto che le navi soccorritrici lascino le acque territoriali dello Stato costiero. Si garantirebbe, così, sia il diritto delle persone ad essere soccorse sia il rispetto della sovranità dello Stato costiero.

Sui poteri coercitivi dello Stato in occasione di ‘atti ostili’ di navi ONG

La vicenda che ha visto protagonista Carola Rackete, comandante della nave Sea Watch 3, per la violazione dell’articolo 1 del Decreto legge 14 giugno 2019, n. 53, recante Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica (pubblicato in G.U. n. 138 del 14 giugno 2019) sposta la nostra attenzione sui poteri/doveri dello Stato costiero nei confronti di “atti ostili” delle navi ONG che non rispettano il divieto di passaggio inoffensivo ai sensi dell’articolo 19, lett. g) Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto internazionale del mare. Occorre prima comprendere a quale regime giuridico debba essere sottoposta una nave ONG (rimando all’articolo di Giuseppe Paccione

Quadro giuridico e ruolo delle navi «ong» nelle Operazioni di soccorso in mare

Quale allora potrebbe essere la risposta dello Stato costiero alla violazione di un diritto sovrano internazionalmente sancito?

Va escluso, ovviamente, il “blocco navale” che secondo il Manuale di diritto umanitario applicabile ai conflitti armati in mare, frutto di una ricerca coordinata dal professor Natalino Ronzitti, pubblicato nel dicembre 1994 e tuttora utilizzato e messo a disposizione per la consultazione dal Ministero della Difesa, è individuato, all’articolo 38, sulla base della Dichiarazione relativa al diritto della guerra marittima pubblicata a Londra il 26 febbraio 1909, lo definisce “un’operazione navale diretta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai litorali o dai porti nemici o occupati dal nemico”.

Una risposta può darcela Il Diritto internazionale applicabile ai conflitti armati sul mare – Manuale di Sanremo preparato da giuristi internazionali ed esperti navali riuniti dall’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario e adottato nel giugno 1994.

Il testo qui menzionato non è che un corpus di regole consuetudinarie non avente carattere vincolante. Se per nave mercantile, secondo il Manuale, si intende una nave diversa da una nave da guerra, da una nave ausiliaria o da una nave di Stato come una nave di servizio doganale o di polizia, che è utilizzata per scopi commerciali o privati (cfr. Parte I Sezione V del Manuale) si deve a giusta ragione ritenere una nave ONG come nave che rientra nella categoria mercantile che spesso (come nel caso della Sea Watch 3) in quanto registrata in Olanda come Pleasure Yacht (categoria assimilabile alla nostra nave da diporto).
Le navi mercantili possono essere attaccate solo se esse rispondano alla definizione di obiettivo militare fornita dal Manuale. Approfondendo la lettura del medesimo riscontriamo, tra le attività che possono fare delle navi mercantili degli obiettivi militari, quella rubricata alla lettera e) ossia “disobbedire all’ordine di fermarsi o resistere attivamente alla visita” (disciplinato dall’articolo 110 Convenzione di Montego Bay), “alla perquisizione o alla cattura” (disciplinato dall’articolo 111 della medesima Convenzione). Tai direttive sono contenute nella Parte II Sezione IV del Manuale. A questo punto sembrerebbe facile asserire che le navi ONG che non osservano gli articoli 19, 110 e 111 possano incorrere violazioni del diritto internazionale del mare sfocianti in veri e propri atti di guerra navale. Per il Manuale del 1994 risultano esenti da attacco ( Parte III Sezione III lett. ii ) le navi impiegate per missioni umanitarie, comprese le navi che trasportano beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile e le navi impegnate nelle azioni di assistenza e nelle operazioni di salvataggio. Una volta chiarito quest’aspetto, nel caso dell’Italia occorre ricordare che, a completamento della normativa internazionale e delle regole di cui sopra l’articolo 11 della Costituzione stabilisce “che il nostro Paese rifiuta la guerra come strumento di offesa o come mezzo per risolvere le controversie”. Dunque, alla luce del quadro normativo testé richiamato, è da escludere l’utilizzo della forza nei confronti delle navi ONG in quanto unico strumento valido per contrastare il fenomeno della violazione delle acque territoriali di uno Stato è quello preventivo come in occasione del monitoraggio e l’interdizione marittima, illustrati rispettivamente dagli articoli 91 e 92 con specificazioni nei seguenti fino al 95: il monitoraggio – spiega il Manuale di Ronzitti – consiste in “un’attività di sorveglianza da parte di navi da guerra dei traffici marittimi verso lo Stato sottoposto a sanzioni” attraverso tecniche di riconoscimento a vista e interrogazioni via radio, ma non di interventi diretti sull’unità navale; invece le operazioni di interdizione marittima, che possono essere intraprese solo su permesso delle Nazioni Unite e al fine di attuare le sanzioni decise dalle Nazioni Unite, si differenziano dalle operazioni di monitoraggio perché “legittimano l’esercizio da parte di navi da guerra del diritto di visita sui traffici marittimi da e verso lo Stato sottoposto a embargo” . L’articolo 93 spiega che “sono soggette a interdizione navale esclusivamente le navi commerciali, indipendentemente dalla loro nazionalità” , con possibili eccezioni decise dalle Nazioni Unite per motivi umanitari. L’articolo 94 chiarisce che l’interdizione marittima può avvenire solo in acque internazionali, salvo esplicita ingiunzione contraria da parte sempre delle Nazioni Unite.

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